Andrea Bianco: la forza di un uomo tranquillo
Descrivere la scultura di Andrea Bianco può diventare complicato, proprio perché non c’è assolutamente nulla di complicato. Con questo artista ci troviamo di fronte ad un paradosso che disorienterebbe la stragrande maggioranza dei critici postmoderni contemporanei e -diciamolo senza polemizzare – ostinatamente iperconcettuali. Quelli cioè che cercano, senza quasi mai trovarle e inventandole di conseguenza – motivazioni complesse, anche là dove non ci sono. Proprio perché la nuda verità pare loro troppo nuda, appunto. Sembra che la semplicità non sia più di moda nel mondo dell’arte contemporanea. Si sente – chi sa perché – il bisogno di ingarbugliare le cose semplici, spinti dalla fame di verità rivelate. Si muore dalla voglia di rendersi interpreti della nostra epoca, di rappresentarne i contenuti (in chiave concettualistica, più che in quella formale), quando invece, come diceva Konrad Friedler, dovrebbero essere gli artisti a dare dei contenuti alla loro epoca.
Bianco non cerca la Verità. Andrea, uomo schietto e artista senza compromessi, sa benissimo che ciascuno di noi può al massimo inseguire la sua “verità”. Ed è quello che lui fa, evitando di confondere indagine artistica con introspezione psicanalista o sociologica, discipline affascinanti quanto si voglia, ma del tutto estranee al linguaggio e agli scopi dell’arte. Andrea opera sulla materia, plasmandola in forme che ubbidiscono alle sue urgenze interiori, non pretende di stenderci sul lettino dello psicanalista. Lui ci sottopone le sue visioni tradotte in forme gentili, visibili, tangibili, persino annusabili. E tutto il suo mondo interiore ruota intorno ad un sole luminoso che si chiama Donna. Insieme ai Cristi crocefissi – come vedremo – le donne sono alla base della sua particolare religione. E vedremo anche come arte e religione (non religiosità) siano tutt’uno per Andrea.
Andrea Bianco le donne le ama tutte, perché ama l’idea di donna come archetipo, come fonte di vita che ispira le prime rappresentazioni della femminilità e della fertilità riassunte nelle Dee madri del Paleolitico superiore, come la famosissima Venere di Willendorf, una statuetta di appena 15 centimetri di altezza, custodita nel Natürhistorische Museum di Vienna. Quella che un artista strafamoso, strapagato e osannato come Jeff Koons ha scoperto da ultrasessantenne, in netto ritardo sul suo acculturamento personale, ma che Andrea, bolzanino di impronta mitteleuropea e quindi ben radicato in una delle migliori tradizioni culturali del “Vecchio Continente” conosce da sempre.
Ebbene, in alcune sculture di Bianco, soprattutto quelle lignee, sono ravvisabili le forme generose della Venere di Willendorf, anche se in questo scultore dall’animo delicato, esse non accentuano certe curve opimi che invece attraggono un artista/apologeta delle “abbondanze” come Botero. Come ho già avuto modo di sottolineare parlando dell’arte di Bianco, in genere gli artisti di valore si ispirano a forme geometriche che tendono alla perfezione, come la circonferenza (e la sfera che è la sua espressione volumetrica) in cui ogni punto della superficie è equidistante dal centro e la linea, che in effetti è formata da una sequenza di punti tendente all’infinito. Se ci facciamo caso, tutti i capolavori che si collocano entro questi due estremi o vi si avvicinano (il già citato Botero per la sfericità e, per la linearità Giacometti) ci attraggono istintivamente. La sfericità ispira simpatia, la linearità suggerisce eleganza.
Andrea rifugge dagli estremi e tuttavia non si colloca in una posizione neutra: si muove verso l’uno o verso l’altro assecondando una pulsione interna che di volta in volta gli suggerisce la soluzione giusta. Soluzione che non scende dal cielo, ma che l’effetto congiunto del talento artistico e di una grande abilità manuale, resa più agile dall’assiduità e dall’impegno fisico del suo lavoro. Sembra persino superfluo sottolinearlo, perché non stiamo parlando di superpoteri, ma della normale dotazione etica e non solo tecnica di un artista: vale a dire “che cosa fai”, “come lo fai” e “perché lo fai”.
Andrea Bianco accenna, suggerisce, non impone il suo punto di vista né violenta il nostro. Non potrebbe farlo nemmeno se lo volesse, perché la sua è la tipica filosofia dell’uomo tranquillo, ma vigile. Dell’artista sensibile, ma deciso a dire la sua andando controcorrente. Non segue le mode, non si lascia sedurre dagli stili “che vanno”, non tradisce la vocazione figurativa, anche se molto lontana – per fortuna – dal “verismo” che piace tanto, perché è facilmente riconoscibile e in qualche modo soddisfa la nostra scarsa voglia di capire.
Il rischio opposto era quello che l’estrema eleganza di molte sue sculture potesse eventualmente attirare le simpatie di un pubblico snob, affascinato più dal glamour che dalla ousìa (cioè dall’essenza) delle sue opere. Succede spesso al giorno d’oggi. Da quello che mi è capitato di vedere finora, le opere di Andrea Bianco riscuotono la sincera ammirazione dei visitatori delle sue mostre. E’ un ottimo risultato in tempi in cui l’arte viene quasi percepita come un fastidio persino da coloro che dovrebbero promuoverla e una cosa inutile da quelli che dovrebbero trarne vantaggio.
La sua produzione scultorea più nota e numericamente – oltre che stilisticamente – più importante resta quella in cui le forme longilinee delle sue donne si elevano verso una sorta di Empireo immaginario, molto vicine alle figure filiformi di Alberto Giacometti, ma – dal momento che Bianco non sente il bisogno di estremizzare in chiave espressionista e nemmeno in quella metafisica (come potrebbe suggerire agli incauti una caratteristica di cui diremo tra poco) – si ferma allo stadio in cui le sinuosità sensuali tipicamente femminili sono rintracciabili senza fatica. L’arte rispecchia la realtà – la evoca, non la copia! – persino quando se ne astrae ed ecco che, sia in natura che in arte, un’alta statura diventa epitome di eleganza (è con questo criterio che vengono selezionate le indossatrici, per esempio). Ma se la capacità di sintesi è una delle caratteristiche più apprezzabili in questo artista, non si arriva mai all’astrazione estrema, al famigerato informale, o all’espressionismo astratto, due delle correnti più travisate della storia dell’arte e quelle più sfruttate dai “furbetti del quartierino”.
Non è difficile ravvisare in Bianco la stessa idea elegante di sensualità e di sessualità attraverso cui arrivare alla vera essenza dell’anima femminile, che muoveva il pennello di Amedeo Modigliani. E Bianco è caratterialmente l’esatto opposto del pittore livornese. Modì cerca di catturare l’anima dei personaggi ritratti, ma lo fa da disperato che in realtà è alla ricerca della propria anima, perchè ha paura della morte che incombe su di lui fin dalla nascita. Modigliani si riteneva uno scultore ed è in questa sua attività (che peraltro gli consigliavano tutti, da Brancusi a Beatrice Hastings, di abbandonare in favore della pittura) che dobbiamo intravedere delle similitudini con l’arte scultorea di Bianco: non nel metodo, ma nel merito, nella stilizzazione delle anatomie che li accomuna, anche se usano stilemi diversi. L’arte africana Amedeo (checché se ne dica), quella primitiva e poi quella classica ellenica Andrea. Ed è qui che la diversa indole detta le regole del gioco. Bianco non solo non dispera, ma è con calma audace – se mi si passa l’ossimoro – che affronta la stessa sfida. Diversissimi, ma entrambi lanciati verso lo stesso scopo.
Però Modì cerca l’anima delle sue modelle nei loro volti e nelle anatomie, allunga il collo, cancella solo le iridi o le trasforma in specchi neri. Non si discosta mai dalla verosimiglianza, anche se odia il naturalismo “cartolinesco” (diceva lui) che disprezza nei macchiaioli, per esempio, ma punta sull’incarnato e sul disegno puntuale dei contorni, accentua le posture tipiche e la mimica dei suoi modelli, perché li conosce bene. Con quasi tutte le sue modelle è andato a letto, ne conosce ogni piega del corpo e quando le dipinge nude è come se accarezzasse quelle pelli seriche, mordendo la vita che sente sfuggirgli. Andrea che invece i drammi li ha superati e la vita la assapora negli affetti famigliari solidissimi oltre che attraverso le sue opere, non scolpisce donne conosciute, o perlomeno anagraficamente rintracciabili, perché le sue modelle sono appunto degli archetipi, non singole persone, ma “la donna” come genere. Quei volti li accenna appena o non li modella affatto, eppure le sue non sembrano per nulla bamboline di bisquit. Anzi.
Perché? Perché non hanno le braccia, per esempio?
In un momento di confidenze, Andrea mi ha detto recentemente di qualche critica malevola (o dettata da estrema incompetenza, dico io) che attribuiva la mancanza degli arti superiori delle sue sculture più note e apprezzate ad una sorta di insufficienza plastica. In occasione della sua personale a Forte dei Marmi dell’inverno del 2019, ho avuto modo di chiarire questa faccenda. Le damine di Andrea non hanno le braccia perché la loro presenza guasterebbe l’opera! Proprio così.
Anche in questo Bianco è un acuto pensatore e un interprete sensibile: Prassitele scolpisce la sua Venere secondo i canoni classici e prende a modello la prostituta Frine, la donna più bella e formosa di Atene. Il tempo o la barbarie umana le tronca le braccia e ce la riconsegna mutila, ma straordinariamente sensuale, ora che il busto i seni e i fianchi sono esposti alla nostra ammirazione (Matteo Marangoni fu il primo grande critico ad accorgersene). Il fascino della Venere del Louvre è dunque frutto del caso. Quello delle donne di Bianco deriva invece da un gesto volontario: Andrea elimina le braccia perché il loro “impiccio” sacrificherebbe la bellezza eterea delle sue donne, interrompendone lo slancio verticale. Ecco spiegato il mistero! Come si vede, la soluzione più semplice è sempre la più geniale, come direbbe Guglielmo di Occam, ma è anche quella che sfugge a chi nelle opere d’arte cerca solo la verosimiglianza. L’uomo comune respinge ciò che non capisce o che lo impegna cerebralmente.
E quale fascino emana da quelle sculture che tutto sono fuorché “belle statuine” secondo l’epiteto che attribuiamo alle “belle senz’anima”, come nella canzone di Cocciante. Snelle, eteree, ma non troppo, brillanti nelle dorature, ialine come correnti d’acqua, profonde come quel Blu di Kline di cui sono ammantate, rosse, argentee o sincere nella nudità del legno che Bianco modella appena, sfruttando le venature e perfino le nodosità, come se intuisse i suggerimenti di madre natura e ne rispettasse le impostazioni ancestrali.
E poi c’è il marmo, quel marmo snobbato dalla maggior parte delle tendenze contemporanee che mirano allo “strabiliantismo” mutuato dall’impiego di materiali avveniristici, come se la personalità di un’opera d’arte, la sua sincerità, il suo fascino dipendessero da un polimero o da un pezzo di metallo informe assemblati secondo il capriccio e non in virtù di un progetto chiaro, semplice. Artistico.
E arriviamo ad un bellissimo nudo disteso, con cui Andrea abbandona per una volta le strutture verticalizzanti per indulgere a forme anatomicamente più realistiche. Ma non troppo, come ci aspettiamo da lui. La figura femminile che giace dormiente su un fianco conserva intatta la sua eterea innocenza, esaltata dal bianco quasi abbagliante del marmo purissimo, ma questa volta perde volutamente una parte della sua sensualità. Sembra scolpita in modo da attrarre una mano carezzevole su quelle forme perfettamente levigate più vicine alle tenere rotondità di una bambina che a quelle di una donna adulta. Non è azzardata – mi pare – l’idea di una posizione semifetale, come se Andrea ribaltasse una volta tanto il ruolo di donatrice di vita per suggerire quello di una vita a sua volta uscita da un grembo materno. La donna che genera è anch’essa generata. E ancora una volta non c’è un viso chiaramente definito. Anzi manca del tutto. Uno schermo disponibile sul quale ogni spettatore può proiettare il volto della “sua” donna, dell’essere che ama o che colpisce la sua fantasia.
Tra le sue ultime produzioni – direi piuttosto le sue invenzioni di matrice più dichiaratamente espressionista – figurano delle sculture lignee, monoxile, ricavate cioè da un unico blocco. In questo caso Andrea risale ai primordi della scultura a quel primitivismo che in origine è frutto dell’inesperienza tecnico-figurativa dei nostri progenitori, ma che in Andrea Bianco – così com’è stato per Picasso e in qualche modo per lo stesso Modigliani scultore – è un ritorno all’arte ingenua del bambino/selvaggio, non sapiente, ma saggio. Un bambino/artista che guarda, ma che non riproduce pedissequamente ciò che vede, come i pittori da cartolina illustrata o gli scultori da arredi per giardini, ma solo ciò che sente. E quella è la sua “verità”. Che possiamo accettare o meno, ma che non possiamo mettere in discussione, perché ce ne mancano gli strumenti.
Sono religiosi gli artisti? Molti non lo sono, altri non lo ritengono un problema con cui impegnarsi, ma Andrea Bianco lo è. E’ un credente praticante – così mi pare – ma è soprattutto un artista che riesce ad infondere il sentimento di amore nelle sue opere e nello stesso tempo fa in modo che amando le sue sculture lo spettatore ne avverta il senso profondo, anche se al primo impatto con quelle forme così poco convenzionali potrebbe non coglierlo immediatamente.
Eppure non è difficile. Se prescindiamo da Michelangelo e dalle sue possenti anatomie che solo lui riesce a spiritualizzare grazie ad un sentimento religioso altrettanto potente, solo Cimabue riesce a fare altrettanto partendo da una organizzazione formale opposta a quella del Buonarroti. Il suo Crocifisso in Santa Croce di Firenze che è con un piede nella convenzione bizantina e con l’altro nella futura convenzione gotica, assume una posa che in parte ritroviamo in quello bronzeo della scultura di Bianco. Quest’ultimo non ha la stessa longilineità fortemente accentuata e perciò è più vicina ad una impostazione classica, ma, come Cimabue, anche Bianco ricorre alla torsione di bacino e gambe (quella che manca al Crocifisso giottesco di Santa Maria Novella) non solo per evitare fastidiose rigidità “chiesastiche”, da puro e semplice simulacro, ma anche per restituire un minimo segnale di eleganza formale (che cos’è l’arte se non forma?), mentre la sofferenza – che ha a che fare con la pietas del credente – traspare dal volto che, proprio come nelle sue sculture femminili, ha un sembiante non compiutamente definito. Il particolare inquietante lo troviamo semmai in quel torace così scarnificato da dare l’impressione – e si può supporre che fosse proprio questa l’intenzione – che con lo sterno e parte della costolatura anche il cuore dell’uomo sulla croce sia stato sacrificato per la redenzione dell’umanità.
Intenti del tutto diversi ha invece il Crocifisso ligneo di Andrea, che almeno per me è una novità, se lo confrontiamo con gli stilemi che guidano quasi tutta la sua produzione precedente. Qui la parte inferiore del corpo è poco sviluppata in favore del tronco e delle braccia, ma soprattutto del volto del Cristo, dove si concentra tutta l’attenzione dello scultore perché è su quella che egli desidera che si appunti la nostra. E’ un lavoro che si presta a una vasta interpretazione polisemica. E’ un volto parlante, quasi urlante, tutto proteso verso lo spettatore (e già questa è una novità in sé) e la prima impressione potrebbe condurci verso quello che a prima vista sembrerebbe il grido di un morente. Ma più che il “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato! (Elì, Elì, lama sabactani)» del racconto evangelico mi pare voglia dire parole che potrebbero non piacere a molti: «Sto morendo per voi, tenetelo bene a mente. In ogni caso io sono il Cristus rex, il figlio di Dio che risorgerà. Vi avverto, non vanificate queste mie sofferenze e questa mia morte, perché altrimenti voi non risorgerete!»
Se tutto questo è vero, se risponde alle intenzioni dell’autore, allora Andrea Bianco sta affrontando l’ennesima sfida della sua vita e ho l’impressione che ancora una volta la vincerà. Dobbiamo solo stare a guardare. Quando un artista si cimenta con temi religiosi, soprattutto se è un credente, esiste il rischio di un eccesso di “psicologismo”, di cadere cioè nel trabocchetto del sentimentalismo, che per l’arte è sempre una rovina. Il Perugino e il fin troppo venerato Guido Reni ne sapevano qualcosa. La forza dell’artista consiste proprio nell’evitare cadute di stile e la lezione di Giotto e di Cimabue, ma anche quella del Giambellino o di Rosso Fiorentino tornano utili. E a me pare che Andrea sappia evitare queste sabbie mobili.
Sto scrivendo queste brevi note (in realtà su questo artista ci sarebbe molto altro da raccontare, compresa la sua attività didattica, la dedizione di Lara, moglie e madre dei suoi figli nonché infaticabile compagna, musa ispiratrice e organizzatrice degli eventi che lo riguardano) in tempi tristissimi. Ho incontrato Andrea e Lara pochi giorni prima dello scoppio della bomba Coronavirus, lo tsunami che ha cambiato le nostre abitudini così drammaticamente e repentinamente da lasciarci col fiato sospeso e con una sensazione di incredulità. Ma mi consola il fatto che Andrea sia al suo lavoro, tranquillo come sempre, ispirato come sempre. Forte come sempre. Promto, quando tutto questo sarà passato e ritroveremo una dimensione più umana, a regalarci il meglio della sua forza creativa. La forza che nessuna epidemia, se non quella che obnubila i nostri cervelli e i nostri cuori può abbattere.
Antonio G. Mellone